gioiosa marea

con la dani

il ghiaccio è cresciuto
e la porta non chiude
ci vorrebbe un rosso
di uovo o di sole
per le dita
di polipi e seppie
ondate di rosso
a cavalcioni ti chiedo
respira profondo
il seno invade
è un fiore carnivoro
un pomodoro di mare





Gioiosa marea è il nome di un paese in Sicilia, dove non sono mai stata. Tutte le volte però, il treno verso Palermo si è fermato a questa stazione. E’ il primo tratto interminabile di mare che si ammira venendo dal continente, tornando. E’ il primo segno di riconoscimento che il paesaggio inconsapevole ti offre. Ne ho sempre goduto. Delle erbe marroni degli scogli sotto i piedi nudi, ne ho sempre goduto. Il piede poteva finalmente non avere paura di farsi del male. Ho l’impressione di camminare sulla testa di qualcuno, a volte da bambina ho avuto paura di fare male a questo qualcuno, che ad un certo punto si alzasse e mi facesse cadere.  In queste visioni c’è tutto il godimento della mia infanzia, delle estati che per fortuna sono sempre tornate.

A mare bisogna fare attenzione alle cose piccole, a dove si mette il piede: le spine dei ricci, le chele dei granchi che appaiono e scompaiono, i buchi degli scogli, gli spuntoni, il lippo, ovvero dove le erbette sono scivolose. Si deve sapere dove tuffarsi e dove no, se tra la sabbia o i ciottoli ci sono aghi, pezzi di vetro, bisogna che la vista misuri le distanze e le profondità, se la superficie ha raccolto benzina e oli, se il fondale è nero per le alghe, chiaro per la sabbia, blu per gli abissi. Acuire gli occhi. Per vedere passare i pesci, riconoscerli, schivare le meduse: sarà davvero una medusa? Sarà quello che mi sembra di vedere quest’ombra, questa trasparenza? Le insenature, le fratture tra gli scogli dove il sole non arriva. Non sforzarsi neanche di vedere qualcosa in quella direzione. Accettarne l’opacità. 

Essendo tutto blu, il cielo e il mare, gli altri colori spiccano e il rosso soprattutto. Nel mare che ho conosciuto meglio ci sono i coralli, ma sui fondali raramente ho incontrato qualche stella marina, molto più spesso i pomodori di mare. In alcuni punti delle isole e della costa, sembrava fossero ovunque. Erano rossi, come il segno del pericolo. Non dovevo toccarli per attrazione né sfiorarli per distrazione. Rischiavo l’irritazione, un bruciore forte, quasi un’ustione, come quando ti si appoggia una medusa, e l’immaginazione correva ai fiori carnivori, ai morsi, ai pezzi di corpo staccati, alle pelle in cancrena, alle amputazioni delle dita.
Un terrore che mi è servito ad imparare il rispetto per il mare e la natura nella sua grandezza, ferocia, imprevedibilità. Se il mare non vuole, tu non puoi. 

Riconoscere questi limiti ne ha insinuati altri. Per esempio che non si può toccare sempre quello che si ama.
Amare con la vista è stato allora spesso un mio modo di amare. Ma solo quello che si offriva al mio sguardo, senza la pretesa di potere svelare, né tantomeno scoprire. Ho sempre preferito la vista sfocata a quella precisa che si ottiene indossando una maschera. 
Le dimensioni dell’abisso non ho mai volute apprezzarle, se non ad occhio nudo.
Se penso al mio corpo e al mio sesso, direi che è stato lo stesso.
Lo vedo come vedo il mare e il suo mondo.
Ma non ho mai pensato di volere sapere se era vero quello che vedevo, se era come doveva essere. Non ho mai voluto sapere se corrispondeva o meno al disegno di un atlante anatomico. Che a volte ho sfogliato, specchiandomi, ma che, in fondo, ho subito dimenticato. Sono vissuta in un momento storico in cui circolavano già tante informazioni "corrette" sui corpi delle donne, e ho sempre avuto a disposizione molte fonti di informazione. Ma la cosa fondamentale è stato affinare l’intuito nel riconoscere le persone che mi avrebbero aiutato a sentire il mio corpo.
Tutte le strumentazioni che sanno dire la “verità” mi mettono a disagio.
Il sesso che tocco lo vedo sul tuo viso.