quando si finisce per rivolgersi ad una santa è per disperazione, per il sentimento che non vale più investire fino in fondo le proprie speranze in quanto si riconosce ora come vano, avendo sentito l’essenziale su cui conviene scommettere. Sul moto di questa sensazione affidarsi a lei per il caso di averla incontrata, non di conoscerla appieno. Si potrebbe dire che la relazione con una santa è come quando ci si innamora di una persona appena presentata, cui si confidano quasi immediatamente, magari senza rendersene conto, delle speranze di felicità. E’ pure qualcosa di più, scegliere un invisibile e fargli fede, facendo fede, in un certo senso, anche al credo popolare, comune, perché raramente ci si imbatte in una santa di cui si è le sole devote. O almeno questo non era il mio caso. Scelsi o fui scelta, era la santa più importante della città, la patrona addirittura. Quella che aveva scalzato le quattro che insieme rivestivano il suo ruolo prima. Mi si fece presente sottoforma di monte. Non ne ho ricordi netti, ma so che accadde quando una mattina dalla terrazza di casa smisi di guardare l’orizzonte del porto alla mia destra e iniziai, invece, a sentire un legame magnetico con il monte alla mia sinistra.
Era il periodo di Natale, e c’era il sole. Ma sempre inverno era e quindi una volta era caldo, l’altra piovoso. Il primo segno fu che il giorno possibile per avvicinarmi a quel monte e seguirne i sentieri a piedi fino al santuario, c’era un sole forte. Poi, che il compagno che mi ero scelta non mi ha abbandonata. Volevo potere mettere da parte i timori della strada da sola, i pericoli lungo il pellegrinaggio. Il percorso mi era selvatico, sconosciuto. Volevo goderne pienamente e lui poteva proteggermi e credere in quello che stavamo facendo, senza esserne al corrente. Gli chiesi di accompagnarmi il giorno del mio compleanno. Devo chiederti una cosa, ma mi devo mettere una voce per la quale tu non possa dirmi di no. Intendevo una voce seria. Non formulai la domanda, mi pare che riuscì ad intuirla, forse ne avevamo parlato in precedenza? Non ricordo, ma disse di sì. Poco prima di passarlo a prendere, in vespa, racimolai nella borsetta rossa tutta una serie di piccoli oggetti legati a delle persone che volevo fossero, come noi, benedette quel giorno dalla santa. Speravo in qualche favore e in una grazia. Più d’una a dire il vero, ma da comporre in una sola, forse. Come se, avvicinando alla santa le persone attraverso un oggetto che era una parte di loro, saremmo ricadute tutte nel campo magnetico della benevolenza e della benedizione. Per me, chiedevo la conferma di non essere malata.
Lo sapevo. Avevo le mestruazioni regolarmente in quel periodo e questo era un segno importante. Più o meno regolarmente, perché, nonostante la terapia, non mi rassegnavo a prendere nota su un calendario della data ogni mese. Questa noncuranza dev’essere un residuo di quell’attitudine a volersene dimenticare, a fare di finta di non avere un corpo sessuato. Solo ora, per fortuna e per necessità, sto cambiando sguardo. Fino ad un certo momento questa capacità di dimenticare mi era tornata utile; mai un dolore mestruale, mai un crampo, né vomito, quasi neanche vergogna. Talmente facevo finta di niente che per qualche mese sparirono. Era la prima volta che andavo a vivere a parigi, una casa con le assi di legno al pavimento, un balcone strettissimo e un camino murato. Avevamo costruito un paravento per dividere il mio letto dal corridoio che portava nell’unica altra stanza. I primi mesi lì il mio corpo divenne del tutto opaco. A ripensarci un giorno soffrii anche per strada uno stato di debolezza assolutamente unico fino ad ora, vicino allo svenimento; lo avevo attribuito alla separazione dal mio fidanzato di allora, appena ripartito. Infatti sarà stato anche questo. Non sapevo cosa succedeva all’interno del mio corpo, e non lo so neanche ora. Ogni tanto quando mi ci concentro, costruisco delle ipotesi. Che mi convincono più o meno. Cerco di attenermi ai fatti, ma tali sono le contraddizioni e i misteri che anche i fatti perdono consistenza. Lavoro tanto sulle coincidenze. Per esempio che la seconda volta l’amenorrea si ripresentò sempre a parigi, a distanza di cinque, sei anni, quando abitavo in una grande casa con la terrazza nello stesso quartiere. Ci misi abbastanza a rendermi conto che qualcosa non andava.
Circa dieci mesi, poco meno. Il periodo di una gravidanza. Che non vivevo, ma a cui stavo dando come un tempo del mio corpo. Se riguardo le foto di quel periodo, vedo le guance gonfie, i seni tondi ostentati. Probabilmente neanche di quelle forme mi accorgevo, per me era sempre tutto lo stesso. Come se il mio corpo potesse non cambiare. La ginecologa mi disse che le ovaie si erano rimpicciolite leggermente e l’utero appariva come rattrappito. Mi suonò di morte. Iniziai a dirlo, con sempre meno strafottenza, poi le analisi del sangue diedero l’allarme rosso. La prolattina era decine di volte superiore al livello consentito. C’era, non c’era, c’era il microadenoma all’ipofisi. Cos’era l’ipofisi, dove. C’era. Dalla santa mi aspettavo di avere conferma che non era diventato più grande di un anno fa, che fosse magari scomparso, un giorno magari scomparirà. E’ stata una risonanza magnetica, pura esperienza sonora, mistica elettronica punk, a farmi sentire la sua voce.
Era il periodo di Natale, e c’era il sole. Ma sempre inverno era e quindi una volta era caldo, l’altra piovoso. Il primo segno fu che il giorno possibile per avvicinarmi a quel monte e seguirne i sentieri a piedi fino al santuario, c’era un sole forte. Poi, che il compagno che mi ero scelta non mi ha abbandonata. Volevo potere mettere da parte i timori della strada da sola, i pericoli lungo il pellegrinaggio. Il percorso mi era selvatico, sconosciuto. Volevo goderne pienamente e lui poteva proteggermi e credere in quello che stavamo facendo, senza esserne al corrente. Gli chiesi di accompagnarmi il giorno del mio compleanno. Devo chiederti una cosa, ma mi devo mettere una voce per la quale tu non possa dirmi di no. Intendevo una voce seria. Non formulai la domanda, mi pare che riuscì ad intuirla, forse ne avevamo parlato in precedenza? Non ricordo, ma disse di sì. Poco prima di passarlo a prendere, in vespa, racimolai nella borsetta rossa tutta una serie di piccoli oggetti legati a delle persone che volevo fossero, come noi, benedette quel giorno dalla santa. Speravo in qualche favore e in una grazia. Più d’una a dire il vero, ma da comporre in una sola, forse. Come se, avvicinando alla santa le persone attraverso un oggetto che era una parte di loro, saremmo ricadute tutte nel campo magnetico della benevolenza e della benedizione. Per me, chiedevo la conferma di non essere malata.
Lo sapevo. Avevo le mestruazioni regolarmente in quel periodo e questo era un segno importante. Più o meno regolarmente, perché, nonostante la terapia, non mi rassegnavo a prendere nota su un calendario della data ogni mese. Questa noncuranza dev’essere un residuo di quell’attitudine a volersene dimenticare, a fare di finta di non avere un corpo sessuato. Solo ora, per fortuna e per necessità, sto cambiando sguardo. Fino ad un certo momento questa capacità di dimenticare mi era tornata utile; mai un dolore mestruale, mai un crampo, né vomito, quasi neanche vergogna. Talmente facevo finta di niente che per qualche mese sparirono. Era la prima volta che andavo a vivere a parigi, una casa con le assi di legno al pavimento, un balcone strettissimo e un camino murato. Avevamo costruito un paravento per dividere il mio letto dal corridoio che portava nell’unica altra stanza. I primi mesi lì il mio corpo divenne del tutto opaco. A ripensarci un giorno soffrii anche per strada uno stato di debolezza assolutamente unico fino ad ora, vicino allo svenimento; lo avevo attribuito alla separazione dal mio fidanzato di allora, appena ripartito. Infatti sarà stato anche questo. Non sapevo cosa succedeva all’interno del mio corpo, e non lo so neanche ora. Ogni tanto quando mi ci concentro, costruisco delle ipotesi. Che mi convincono più o meno. Cerco di attenermi ai fatti, ma tali sono le contraddizioni e i misteri che anche i fatti perdono consistenza. Lavoro tanto sulle coincidenze. Per esempio che la seconda volta l’amenorrea si ripresentò sempre a parigi, a distanza di cinque, sei anni, quando abitavo in una grande casa con la terrazza nello stesso quartiere. Ci misi abbastanza a rendermi conto che qualcosa non andava.
Circa dieci mesi, poco meno. Il periodo di una gravidanza. Che non vivevo, ma a cui stavo dando come un tempo del mio corpo. Se riguardo le foto di quel periodo, vedo le guance gonfie, i seni tondi ostentati. Probabilmente neanche di quelle forme mi accorgevo, per me era sempre tutto lo stesso. Come se il mio corpo potesse non cambiare. La ginecologa mi disse che le ovaie si erano rimpicciolite leggermente e l’utero appariva come rattrappito. Mi suonò di morte. Iniziai a dirlo, con sempre meno strafottenza, poi le analisi del sangue diedero l’allarme rosso. La prolattina era decine di volte superiore al livello consentito. C’era, non c’era, c’era il microadenoma all’ipofisi. Cos’era l’ipofisi, dove. C’era. Dalla santa mi aspettavo di avere conferma che non era diventato più grande di un anno fa, che fosse magari scomparso, un giorno magari scomparirà. E’ stata una risonanza magnetica, pura esperienza sonora, mistica elettronica punk, a farmi sentire la sua voce.
***
Avevo sempre pensato che il sangue si lavasse con l’acqua calda invece una volta mia nonna, o mia madre, mise del ghiaccio a contatto con le mie mutande sporche. E sulla scia di questo insegnamento, quando Milaka macchiava le lenzuola, io correvo al freezer. Mi stupivo io stessa di quanto entrare in contatto con il suo mestruo mi facesse sentire privilegiata. Ostentavo fieramente che non mi facesse schifo. Tra me e lei c’è stata una storia strana e in parte segreta anche a noi stesse. Non ho sue notizie da molto tempo, ormai quasi due anni. Ho voluto allontanarmi da una coincidenza che ha segnato i nostri corpi. Da quando ne sono stata cosciente anche io, prima, forse, la sapeva solo lei. Me l’ha detto una volta in cucina. Che lei e Mathias volessero avere un bambino, lo annunciavano a tutti, ma Milaka in cucina mi ha spiegato perché non ci riuscivano. A quanto pare il suo corpo produceva troppa prolattina, come se in effetti la gravidanza ci fosse già stata e il figlio già nato. Non si è mai voluta fare, che io sappia, le analisi per accertarsi o meno del tumore all’ipofisi. Il suo orizzonte di credenze non lo comprendeva. In questo aveva mantenuto un orientamento dell’origini, algerine da entrambi i genitori. Dall’Algeria veniva il carbone che bruciava ogni tanto il sabato pomeriggio, quando in casa c’eravamo solo io e lei. Dopo avere pulito e sistemato tutto, ogni tanto mi chiamava. Scendevamo in cucina e metteva a riscaldare in un braciere del carbone speciale. Non ricordo se mettesse sopra poi una polvere o degli odori, dell’incenso magari. Facevamo il giro delle stanze, solo quelle che ci stavano a cuore, la mia, la loro, il salone. Poi mi diceva di allargare le gambe e ci passava sotto con il fumo, faceva lo stesso sotto di lei. Fa bene alla fertilità. Voleva che anche io avessi dei bambini. A volte, al pensiero di un legame incantato, mi prende paura. Ma, appunto, non so cosa le sia successo e lei non sa cosa sia successo a me.
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Trattenevo quando sentivo che stavo rischiando troppo. Era il pegno. Impegnavo le mie mestruazioni al banco del destino. Quanto più mi privavo della mia potenza prima, tanto mi aspettavo la sorte dovesse restituirmi in termini di felicità. Questo era il patto tacito che avevo fatto, faccio ancora?, con il diavolo o chi per lui. Quale parte di me avesse stretto l’accordo, non lo ricordo. Il corpo ha ubbidito e nello stesso tempo non ci è stato quando è sembrato che l’altra parte non avesse rispettato pienamente l’intesa. Non voleva lasciarmi riscattare il pegno, una volta il patto esaurito. Io avevo avuto la salvezza dopo il rischio, la soddisfazione, gli attimi di felicità durante il periodo di amenorrea, ma il diavolo o chi per lui non voleva darmi indietro le mie mestruazioni. La prima volta che accadde devo averlo impietosito per le condizioni tragiche in cui versava la mia esistenza: gli esami da sostenere in una lingua ancora straniera, la lontananza da tanti affetti, i pochi soldi. Ma quando si verificò ancora, invece, decise che avevo avuto troppo e meritavo una paura grande. Avevo tirato la corda. Così il tributo in sacrificio non bastava mai. A chi andava il mio sangue? A chi i miei ovuli? Chi generava al mio posto? Non lo posso sapere. Forse, però, a nessuno. Semplicemente andavano persi, riassorbiti. A dire il vero, non mi interessava per niente. Ora sì, vorrei saperlo, non per rivendicarli, ma per potere eventualmente andarli a cercare. E sanguinare. Mi piace sanguinare. A tal punto che vorrei il mio ciclo durasse oltre il tempo fissato dalla natura della mia vita. Perché ad un certo punto si smette? Non potrebbe essere per tutta la vita? Ho le stesse pretese della bioscienza.
Ci sono sette lune da ora alla fine dell’anno.
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prima luna: sono state le ciliegie che ho mangiato ieri a farmi sanguinare. E’ la stagione. Le ho morse, ben pestate con i denti, riscaldate e si sono raggrumate, rosse, nella mia pancia. Poi stanotte si sono trasformate in sangue dolce. Dico che sono state loro perché ho sentito la poltiglia appesantirsi nel basso ventre, distribuirsi da una parte e dall’altra. Erano buonissime; almeno quattro pugni le ho mangiate nella strada dal mercato a casa senza aspettare, con la polvere. Poi le altre me le hanno regalate. L’avidità era dovuta all’albero che ho sotto casa, nel giardino dei vicini, irraggiungibile. Dopo i fiori bianchi, le foglie, era venuto il tempo dei frutti, e sono ciliegie. I merli vanno e se le rubano, senza sforzo. Le beccano, le torturano, rotolano sotto l’impulso, fino a che da qualche parte resta il nocciolo, la carne staccata. Il mio sangue stamattina odora di strage. Siamo nel mese delle commemorazioni.
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seconda luna: quando mi chiedevo dove andassero a finire i miei ovuli, l’inconscio sospettava le responsabili della mia propria nascita. Erano loro che nei sogni concepivano e partorivano. Forse a suo tempo questi mai nati li avevano desiderati pur senza generarli. Nel presente assoluto invece nascono. E’ il terzogenito di mia madre, maschio. Tondo, dorme pasciuto mentre le urlo che se mi avesse accudita nello stesso modo, ora starei meglio. Mia nonna aspetta a ottantasette anni un figlio. Al telefono ce lo annuncia la zia tra il felice e il rassegnato per le scappatelle sessuali della vecchia. Tra tante giovani della famiglia, ci si sarebbe aspettati fosse un’altra la prossima. Era andata per i campi con uno, forse un parente di un parente. Non ci sono limiti di età, è un caso raro ma possibile. Si crede, ossessionate, che la gravidanza sia un rischio costante. Poi, come per protocollo, si decide di non correrlo. In verità a me sembra una remota realtà, che si allontana per amore del mio stesso sesso. Non tutte le combinazioni sono possibili. E’ una legge di natura alla quale vorrei ribellarmi, ma sarebbe a vuoto. Come non volere invecchiare. Tutt’al più vorrei svelare l’inganno. Escogitare un sotterfugio. Non reggerebbe, perché non vedrei i miei occhi mescolati ai tuoi, i miei zigomi e le tue anche, le forme delle mani e delle gambe. Si conserverebbe il mistero della nascita e degli esseri invisibili che la permettono. Si farebbe sostanza, carne. E in questo mondo di certezze ci deluderebbe, ma forse, chissà, forse, lo accetteremmo lo stesso.
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quarta luna: voglio partorire senza dolore. Mentre salgo le scale dell’ospedale, voglio partorire senza un medico, non dovere venire in un posto come questo. E, allo stesso tempo, non rischiare niente per le mie scelte. Voglio chi mi sia accanto. Ora solo, però, mi è chiaro che mi confondo non perché non so con chi fare un figlio. Ma a chi. Un figlio lo si deve volere dare a qualcun altro, ad una donna, ad un marito, non importa. Al mondo, almeno. Il dramma è quando il tuo corpo te lo chiede ma, tu, in effetti, non sapresti a chi darlo. Forse è per questo che gli uteri delle madri surrogate funzionano; portando alla nascita per altri, non vanno a male. Una gravidanza si perde, se non è destinata a nessuno o non si sa bene a chi. Volere un figlio per sé, mi pare impossibile, sarebbe semplicemente come raddoppiarsi e solo chi non si conosce abbastanza, potrebbe averne la tentazione. Oggi, invece, io ho toccato il mio osso, come una pesca. Devo averlo deciso una volta per tutte. Mi faccio mordere, mangiare, scavare. E forse un giorno questo osso lo partorirò.
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sesta luna: il desiderio ha una violenza. E’ affermativo, come sbattere forte una mano sul tavolo per fare stare zitti tutti intorno. Dirti che potrebbe avere la pelle intorno agli occhi e della fronte come te, mi è costato più caro. Ho dovuto girare l’osso del tuo collo, senza arrivare a romperlo. Orientare i bulbi dei tuoi occhi. Allentare i muscoli delle braccia. Fissare le tue labbra affinché si muovessero. Anche la musica, gli orgasmi, l’esaltazione sono fatica. Basta guardare le facce di chi suona o canta, mentre lo fa. Non so ancora in cosa sono riuscita. Forse per questo ho pensato, mentre camminavo a londra sotto la pioggia di notte, che una ulteriore violenza poteva essere una soluzione. Che qualcuno mi prendesse, non importa chi, imponendomi la sua scelta con la forza. Mi violentasse, rendendomi anche madre. Inorridita, mi sono ritrovata a immaginarlo come una possibilità. Poi mi sono venute in mente tutte le dee aggredite che hanno partorito un destino speciale. E ho pensato che deve essere da lì quell’immaginario. Essere come una dea che puo' partorire un destino speciale.
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settima luna: inizia ad una certa ora della mattina, di solito, la discesa. E’ un rosso a darmi l’allarme. In genere è qualcosa che ascolto o ho ascoltato che non mi dà pace. All’inizio è solo un fastidio, poi, prima o dopo, diventa un chiodo. Incontro allora tutti i miei demoni, facciamo festa. Per questo mi accompagna la musica che amo di più, le voci che possono vivificare la mia ipofisi. Si sveglia. So che si rilassa mentre penso a tutte le guerre che ho in corso. Una l’ho già vinta, ed è l’aborto delle scorse notti. Quando il bambino d’oro è andato ai morti, il mio utero era rilassato e vuoto. Accanto a me c’era una lupa, dall’altra parte, poi, ho ritrovato diversi oggetti. Sono magici. Un ago, mutande di pizzo leggero, fili tesi da un punto all’altro del muro, una cagna addormentata, una leva, una pistola apparentemente carica, una matita appuntita. Ho passato la lingua sui denti. Erano affilati. Ho massaggiato l’ipofisi. Da li’ ho iniziato a pensare che avevo conosciuto la tortura, l’attrazione e la seduzione, la musica, l’inseguimento, la potenza di capovolgere il mondo, di specchiarmi in una pozza di sangue dopo uno scoppio. So che potrei cavare gli occhi al mio nemico, se serve, come insegna Gandhi. La lupa invece non mi mangerà, mi terrà solo nella sua bocca per proteggermi mentre attraversiamo, felici, il bosco. Alle nostre spalle i roghi, alzando gli occhi, ci ritroveremo al sud.
Una santa bisogna ringraziarla comunque, per le grazie esaudite e per quelle non compiute, anzi forse soprattutto per queste ultime perché ti ha evitato di andare nella direzione desiderata ma forzando il destino. In fondo la domanda che si fa ad una santa non è "fammi la grazia", assomiglia piuttosto ad una verifica del desiderio: è cosa giusta volere questo? sta nel mio, nostro destino?
Lei ti risponde con atti e omissioni.
Ormai mi viene da chiamarti solo Rosalia, senza l’appellativo che ti dovrebbe nobilitare. Per me sei Rosalia ed abiti nel castello che vedo dalla terrazza, ma so che ti posso trovare più spesso nella grotta a riposare al fresco.